a volte ritornano

a volte ritornano

lunedì 24 settembre 2012


L'arte del tè, della guerra e dell'addio Miku si avvicina con un vassoio. I suoi occhi sembrano cesellati in una notte chiara, percorsa dai caldi riflessi dell’ambra. Indossa uno splendido kimono, un susohiki bianco perla con ricami floreali di un tono appena più scuro, che emergono sull’abito come fiori di loto appena pensati. Porta alla vita l’obi, un’ampia fascia di seta celeste con un fiore di losanghe di cristallo ricamato sul fiocco, che nasce sotto il seno e le avvolge la schiena. Molte ragazze occidentali glielo ruberebbero lasciandola nuda e febbricitante in mezzo alla neve. Il trucco sul suo viso è leggero ed esalta la sua bellezza, non la nasconde. La sua eleganza non è ostentata, anzi, è unica, così come l’unica vera forma di eleganza è non ostentare. Tutto il resto è finzione, artificio, ridicolo. Le sue mani leggere poggiano sul tavolino di bambù una teiera che sembra tinta di terra, un antico tetsubin e due tazze. Osservo i contrasti tra la delicatezza delle porcellane, la resistenza del ferro del bollitore forgiato dalle mani indurite degli artigiani di Nanbu, i segni precisi delle loro sapienti riparazioni, lo sguardo discreto di Miku, mai diretto eppure perfettamente consapevole di ogni cosa intorno a sé. Le sue morbide mani si muovono lentamente, con sapienza, disegnando origami nell’aria. Io respiro il profumo dei fiori che quelle mani hanno disposto con maestria in uno splendido ikebana… e capisco che in realtà non vi sono contrasti: ogni cosa è al suo posto, in armonia con le altre. Qui rivivo la stessa sensazione di bellezza e perfezione vissuta ammirando l’arte, l’architettura e i luoghi dell’Antica Grecia. L’ho provata prima, percorrendo il giardino costruito con una tale cura da sembrare un capolavoro della natura, con le sue lanterne coperte di muschio, il ruscello e meravigliose piante e fiori capaci di farti dimenticare in pochi minuti la città e la confusione per immergerti nel silenzio e nella meditazione. La provo ora, fissando lo sguardo sui segni delle mie riparazioni interiori, ora che sento una serena malinconia, un calore che scioglie il gelo degli ultimi due anni di solitudine, tormentata dalla presenza di ombre e simulacri di persone che non esistono nella realtà. Non so dire come, ma qualcosa risveglia in me il ricordo della mia onnipotenza infantile, sepolta ormai da decenni sotto la polvere della sconfitta e della sofferenza. Ricordo di essermi creduto capace di tutto. Ricordo di aver avuto fiducia nella vita, in me stesso, negli altri, e come tutto ciò costituisse un tutt’uno. Ricordo come il ricambiare quell’amore e l’essere amato fossero la stessa indissolubile cosa. Ricordo di essere stato molto amato e che non avevo paura. Ricordo che non potevo respirare, che l’aria non riusciva a riempire i miei polmoni e che facevo di tutto per trattenere quella che entrava il più a lungo possibile, fino a sibilare come un mantice, fino ad allargare a dismisura la cassa toracica: ero asmatico. Ricordo che qui a Nanbu, sull’isola di Honshū, l’asma non esiste. Magari non è vero ma mi tranquillizzo. Miku è un nome bellissimo, il suo suono è dolce ma non ne conosco il significato. Glielo chiedo, lei prende un pennino e un foglio di carta di riso e scrive il suo nome in scrittura Kanji: 未 来. Poi mi spiega in inglese che Mi significa “non ancora”, mentre Rai ha vari significati. Può voler dire “prossimo”, oppure “venire”, ma anche “causa”, o ancora “diventare”. «Questa scrittura 未 来 significa “futuro”, letto però in modo diverso: Mirai», mi dice. Infine afferma: «Sicuramente possiamo interpretarne il significato come “il futuro che deve ancora arrivare”». Ricordo di aver creduto nel futuro. Lo ricordo con chiarezza, ma non riesco a rammentare quando ho cominciato a smettere. Quando, quando sono cresciuto? Quando è stato che ho capito di non essere onnipotente? Forse quando ho cominciato ad amare. Quando ho scoperto di dipendere dagli altri per molte cose, per il calore, per la gioia, per le risate, per le parole belle e dolci, per la profondità dei sentimenti, per la mia stessa sopravvivenza. Quando ho cominciato ad aspettarmi amore in cambio del mio amore. Quando mi sono scoperto disposto a fare qualsiasi cosa pur di essere accettato e amato, persino cambiare e diventare qualcos’altro o qualcun altro. E cosa ho provato, invece, quando ho pensato che sarei potuto morire per amore? Paura, ribellione, debolezza… ribrezzo di me stesso? Niente di tutto questo. Era solo un modo per recuperare quell’onnipotenza: potevo di nuovo fare qualsiasi cosa per amore, addirittura morire, dunque ero di nuovo onnipotente. Oppure no? No. Miku si avvicina, ripone un fazzoletto di carta bianca nel risvolto del vestito, apre un chaire, gli aromi del tè si diffondono ovunque, ne sceglie alcune foglie che versa nel chagama e comincia a farlo bollire, dicendo: «L’arte più difficile del mondo è apprezzare le cose semplici. L’arte del tè è tra le più semplici». Potevo scegliere la fisica dei quanti ma sarebbe stato troppo facile. «Per apprezzare le cose semplici bisogna imparare a rinunciare, o almeno a sospendere, ogni nostro conflitto e a superare, se non si sanno dimenticare, tutte le nostre difficoltà. Meschinità e prodigalità sono entrambe un ostacolo alla contemplazione della semplicità. I samurai fecero della cerimonia del tè un elemento fondamentale della Via, il codice di condotta che regolava la vita dei guerrieri in ogni suo aspetto. Essi lasciavano le loro spade all’esterno di questa stanza, la cha shitsu, per godersi il suo perfetto equilibrio e l’armonia con il giardino o con il resto della casa. Apprezzavano la vista del chabana, magari un solo fiore appoggiato nella tokonama, quel piccolo vano dove puoi ammirare i rotoli dei calligrafi, e infine sorseggiavano il loro tè meditando». Qualcosa mi lascia perplesso. Forse il troppo movimento. Mentre assaggio uno squisito kaiseki, provo a immaginare i samurai che entrano nella sala, si siedono nella posizione rituale e seguono in silenzio e con grande concentrazione il rituale del tè. Il canto di un usignolo e lo scorrere del ruscello che attraversa il giardino mi distraggono. Provo un senso di invidia per quella concentrazione che io non riesco mai a ottenere. Forse perché sarà una cosa strettamente legata alla serietà. Da bambino mi sarebbe piaciuto tantissimo diventare un samurai. Anche da ragazzo, non mi vergogno a dirlo, seguivo le avventure di Lupin III perché mi piacevano le gesta di Goemon Ishikawa, l’abile samurai discendente da un’antica famiglia di ladri. Gli altri, Lupin III e Jigen, mi facevano ridere molto, è vero, ma non mi affascinavano; poi c’era la splendida Fujiko, che mi piaceva tantissimo ma era, per così dire, un tipo “ingestibile”; l’ispettore Zenigata mi faceva tanta tenerezza perché somigliava a mio padre, irrimediabilmente onesto e sempre sconfitto nei suoi tentativi di fare e avere giustizia, mentre lui, Goemon, lui era tutto quello che avrei voluto essere: calmo, determinato, coraggioso, infallibile. Tranne che in un dettaglio: lui odiava le donne e Fujiko più di chiunque altra. La odiava perché era egoista, asociale, capace di amare solo tre cose: soldi, gioielli e se stessa, e si serviva della sua stupefacente bellezza solo per raggiungere i suoi scopi. Aveva due grandi, meravigliosi, seni: il suo nome, Fujiko, vuol dire appunto “Cime gemelle”. Era bravissima nel farli ballare tra le mani, facendoli oscillare su e giù, e poi roteare a destra e a sinistra, fino a ipnotizzare Lupin, che a quel punto faceva qualsiasi cosa lei volesse. Quanto avevo desiderato la katana di Goemon, la Zantetsu-ken, la “spada che taglia il ferro”. In realtà poteva tagliare qualsiasi cosa: eserciti, carri armati, navi, aeroplani, grattacieli, intere città, pianeti e sistemi solari, tranne il purè di patate. Era un impedimento simbolico: è così che si riduce il cuore in amore, come un purè, e nessuna spada può tagliarlo, perciò Goemon si rifiutava di amare, ma io che ne potevo sapere allora? Ora mi accontenterei anche di un bisturi. «I samurai dedicavano tantissimo tempo all’arte della concentrazione, il fondamento di qualsiasi arte», mi dice Miku. Faccio uno sforzo per prestare più attenzione alle sue parole. «Nel tempo che trascorrevano in sala, dimenticavano la guerra, rinunciavano alla battaglia e si dedicavano interamente alla contemplazione del bello. Penso che per te sia giunto il momento di seguire la loro Via. Almeno sotto quest’aspetto.» I suoi gesti lentissimi mi affascinano. Miku è immersa in una vera e propria meditazione strettamente legata alle pratiche Zen. La rigida osservanza delle regole garantisce che nulla turbi la serenità e l’armonia del rito. Mi fanno male le ginocchia e la gamba sinistra comincia a formicolare. In silenzio, anche loro. Miku comincia a riempire le tazze con il gyokuro, il tè delle grandi occasioni, denso, di un colore verde vivo, ricco di riflessi in cui è facile perdersi mentre la guardo in silenzio e sento crescere in me un senso di intimità e di profondo rispetto nei suoi confronti. Ogni suo gesto è un atto di sensibilità e grazia mirato a purificare lo spirito e a porlo in armonia con la natura. È fortunata a poter ripetere ogni giorno quel rituale, poiché “la ripetizione è un modo per comprendere i profondi significati nascosti in ogni piccolo gesto e giungere così all’Illuminazione”. Bisogna assolutamente farlo sapere agli operai alle catene di montaggio. Mentre mi porge la prima tazza, mi spiega che il tè in forma densa si chiama koicha e viene fatto assaggiare all’ospite più importante (in questo caso, io, per mancanza di altri ospiti) che ne prende pochi sorsi e la passa al vicino. Nel gustarlo mi rendo conto che ha un forte sapore d’erba. Cerco di trattenere ogni sensazione il più a lungo possibile e di ampliarle, poi le porgo la tazza, che lei riceve con la mano destra, secondo il rituale, e la appoggia lentamente sul palmo sinistro, ammirandone la bellezza. Sempre con la mano destra fa ruotare la tazza in senso antiorario, sceglie il lato più bello e lo porge verso l’esterno, infine sorseggia il tè anche lei. Dopo aver bevuto, pulisce il punto su cui ha appoggiato le sue labbra (cosa che un po’ mi dispiace), riporta la tazza nella sua posizione iniziale e me la porge di nuovo. Stavolta ho compreso le regole e le rispetto anch’io, con precisione. Quando le porgo di nuovo la tazza, Miku ripete la sua parte di rituale, che ora è perfetto, e alla fine la ripone. Dopo una lunga pausa di silenzio, mi spiega: «Il maestro riconosciuto della cerimonia del tè fu Sen no Rikyū, che ne fece una vera e propria forma d’arte. Il suo gusto per il bello e il suo pensiero lo resero così famoso che fu scelto per servire due dei tre generali che si batterono per l’unificazione del Giappone, tra il 1500 e il 1600, Oda Nobunga e Toyotomi Hideyoshi». Avevo già letto qualcosa su di loro in un volume di storia del Giappone, ma non posso fare a meno di chiedermi se avrebbero potuto battere Goemon, anche tutti e due insieme. «Rikyū stabilì i principi fondamentali del rito: serenità, armonia, silenzio e quiete interiore, e perfetta sintonia con la natura. Se oggi come ospite sei seduto al posto d’onore, vicino al tokonama, è perché Rikyū ha stabilito così secoli fa. Se non ci sono ospiti, a quel posto si siede il capofamiglia.» Ricambio la conoscenza trasmessami con un inchino e resto muto, in attesa. Spero di riuscire a fare il silenzio dentro di me e mi arrendo al fascino arcano di quel luogo, all’incredibile bellezza della sobrietà. Non c’è niente, ma è bello così. Vorrei affogare in quel niente le mie meschinità, i miei rancori e i miei errori, le mie preoccupazioni e i miei obiettivi, per darmi modo di cercare di raggiungere la Perfezione attraverso le mie tante imperfezioni. E magari arrivare fino in fondo a qualcosa, per cambiare. In verità, mi basterebbero la serenità e la forza di tagliare i pesi morti, le fonti di dolore. «La Via dei samurai alla cerimonia del tè cominciava quando questi lasciavano la loro spada all’esterno della sala.» «Io non ci riesco, Miku», confesso di getto, come per liberarmi di un peso enorme. «Non ci riesco, non ne sono capace.» «È per questo che ora sei soltanto un uomo che lotta. Per diventare un vero guerriero devi imparare a scegliere le tue battaglie e soprattutto le guerre che valgono davvero la pena di essere combattute. Devi imparare a scegliere le persone e le cose che ti circondano, e a vivere in armonia con esse. Devi imparare a fidarti delle persone e delle cose che scegli. Solo così potrai arrivare al punto di lasciare la tua spada fuori dalla casa e sorseggiare il tè insieme con loro, vivendo pienamente il momento.» «Hai ragione, certe persone, certe cose, è meglio perderle che trovarle.» «Ne sei sicuro? Se escludi la sofferenza che queste hanno arrecato al tuo cuore, rimani ancora della tua opinione? E se questo dolore fosse nient’altro che il frutto del normale fluire degli eventi, dei cambiamenti inevitabili, di cose che non puoi cambiare, queste cose, queste persone, non hanno comunque portato gioia alla tua vita, seppure per un tempo limitato? Non sei stato felice in quei momenti? Non sei diventato, grazie anche a quelli, una persona migliore? E non saresti più povero se non li avessi vissuti?» «No, no: Fujiko è proprio una stronza!», vorrei dire, invece respiro profondamente, scuoto la testa e dico: «Sì. Forse sì. O forse è solo vero che nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto.» «O forse sono vere entrambe le cose.» Ma… per caso conosce Fujiko? Non oso chiederglielo. Devo essere onesto con me stesso: ha ragione lei. Il punto è che alcuni eventi e alcune persone mi hanno ferito perché non sono state come io avrei voluto. Perché non sono stato capace di capire e accettare fin dal principio la loro vera natura e i loro scopi. Io mi sono illuso, io mi sono spinto nell’ingannevole mondo di mâyâ e le sue allucinazioni portano inevitabilmente dolore… ma se ne può uscire. Ricordo la sensazione di bellezza triste che avevo avuto nell’osservare una splendida fioritura dei ciliegi a Fukuoka, ai primi di aprile. «Sai che ora stiamo trasgredendo la regola del silenzio, vero?», mi chiede Miku. «Sì, me ne rendo conto e ti chiedo scusa.» «No, non è necessario. Stiamo entrambi facendo dei progressi, non c’è nulla per cui scusarsi. Ma il silenzio, la solitudine, la concentrazione, sono preziosi per conseguire la liberazione dal mondo materiale e l’evoluzione dello spirito verso una vita più semplice: non si arriva alla vera comprensione attraverso le parole o il linguaggio, ma solo tramite la pratica della Via. E questo i samurai lo sapevano alla perfezione.» Miku si alza per preparare l’usuka, prende poche foglie di tè dalla natsume e le versa stavolta nel testsubin. Mentre ripete il rituale seguendo con lo sguardo movimenti che si riverberano nel tempo e nello spirito, mi dice: «L’arte del tè, l’arte della guerra e l’arte dell’addio, sono la stessa cosa.» Questa frase crea finalmente il silenzio dentro di me. La forza di queste parole fa il vuoto interiore, spazza via come un ritorno di fiamma le mie illusioni, gli inganni dei sensi. Comincio finalmente una vera meditazione e riesco persino a resistere all’eccitazione causata dalla forza e dalla bellezza di quello che sto provando. Vedo quella spada che il samurai lascia fuori dal recinto e finalmente vedo che è proprio da quel gesto che acquista senso il cammino, cominciato da ancora più lontano: dal circondarsi di cose e persone che ti permettano di lasciare la tua spada fuori dal recinto. Capisco che è arrivato il momento di lasciarmi dietro i miei sbagli e le mie illusioni. Fujiko è fatta così, ho sbagliato io, dunque tocca a me andare via. Devo dire addio ai suoi seni meravigliosi, splendide isole di panna sormontate da fiori e fragole, alle sue mani di bimba e agli artigli da strega, alla sua bocca di miele e fiele, alla sua lingua di velluto e vetro infranto, alle sue bugie veritiere e alle sue verità bugiarde, alle sue cosce di seta e alla sua trappola d’acciaio, alle sue ipnotiche seduzioni. Non c’è mai stata alcuna possibilità di costruire qualcosa e non c’è nulla da ricostruire. Non posso fare altro che riprendere la mia Via, che mi piaccia o no. Dopo la sofferenza che sto vivendo e che continuerò a provare per molto tempo ancora, mi resterà il ricordo dolcissimo di una donna che ho davvero amato. Qualcosa da mettere da parte per la vecchiaia, in mancanza di una pensione da ladro. Al termine della cerimonia Miku raccoglie le tazze e le porta fuori dalla stanza. Al suo ritorno, con un inchino mi dice che il rituale è finito e mi accompagna fuori, lungo il sentiero in giardino. Un usignolo lascia il suo ramo e si lancia con un acuto verso la porta del giardino. Miku lo segue con lo sguardo e mi racconta che adora il suo canto, che depone tre o quattro uova che cova con immenso amore, ma che le ha anche impedito di allevare altri uccelli perché va a disturbare la cova degli altri. È quasi impossibile allevarlo in cattività, ma lei ci è riuscita: ha un suo metodo. Mentre camminiamo, mi dice ancora: «Quando i miei genitori hanno voluto che apprendessi l’arte del tè, io non ne fui felice, la ritenevo una cosa superata, anacronistica. Preferivo i manga a tazze, teiere e rituali che mi sembravano fatti più per una geisha che per una donna moderna, ma quando ho iniziato, non ho più smesso. Ho vissuto momenti terribili nella mia vita, e quest’arte mi ha aiutato a superare il dolore e a comprenderlo come una parte della vita, non come la vita, la cui bellezza è sempre imperfetta, impermanente e incompleta. «Questo è il principio fondamentale del Wabi Sabi. A noi non resta che accettarla così com’è ed essere grati di viverla, anche quando lascia su di noi quelle cicatrici che ci fanno assomigliare a quel bollitore che ammiravi tanto, e che oggi è molto più bello di venti anni fa e di cento anni fa, anche grazie ai segni delle riparazioni subite.» Resto in silenzio, sulla porta del giardino, meditando sulle sue parole. La guardo, lei mi saluta con un inchino dicendo: «Ricorda, dolce Goemon: la Zantetsu-ken può tagliare qualsiasi cosa, tranne il purè di patate.» La mia spada qui fuori non c’è, ma una cosa è sicura: Miku conosce Fujiko! Esito sulla soglia. Il vento mi scompiglia i capelli e tenta di strapparmi un lembo del kimono. L’usignolo si getta nel traffico.

mercoledì 4 luglio 2012


Dovremmo trattare la nostra vita come la valigia che prepariamo per un viaggio,quindi scegliere le cose che sono davvero essenziali e che ci stanno a cuore.Non si puo' portare tutto,a mano a mano che si va avanti bisogna lasciare indietro qualcosa e liberarsi del superfluo che pesa sulle spalle.

giovedì 14 giugno 2012

Due Ciliegi innamorati, nati distanti, si guardavano senza potersi toccare. Li vide una Nuvola, che mossa a compassione, pianse dal dolore ed agitò le loro foglie.. ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono. Li vide una Tempesta, che mossa a compassione, urlò dal dolore ed agitò i loro rami.. ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono.. Li vide una Montagna, che mossa a compassione, tremò dal dolore ed agitò i loro tronchi.. ma non fu sufficiente, i Ciliegi non si toccarono. Nuvola, Tempesta e Montagna ignoravano, che sotto la terra, le radici dei Ciliegi erano intrecciate in un abbraccio senza tempo. ♥

domenica 27 maggio 2012